Danilo Maestosi
Danilo Maestosi
Danilo Maestosi

30 settembre – 29 ottobre 2023 Museo Hendrik Christian Andersen, Via Pasquale Stanislao Mancini 20, 00196 Roma
Inaugurazione: venerdì 29 settembre 2023, ore 17.00
Curatrice: Erminia Pellecchia
Orari: dal martedì alla domenica ore 9.30 – 19.00; ultimo ingresso ore 18.30. Ingresso gratuito.


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Io siamo Penelope
«...Ci vogliono miti, universali fantastici, per esprimere a fondo e indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo...»
Cesare Pavese

Mythos: dal greco, racconto. È il linguaggio della memoria per Cesare Pavese, la matrice di tutte le storie per Italo Calvino, il nulla che è tutto per Fernando Pessoa. Per Danilo Maestosi, è narrazione infinita, può proseguire e generare altri racconti, trovare nuovi punti di vista e direzioni alternative, trasferire l'esperienza del passato a scenari diversi e finali aperti. Lo dichiara nel ciclo pittorico che ha dedicato a Penelope, la Penelope saggia e devota, semplice comparsa nella saga di Ulisse, suo sposo, e raccontata, dice l'artista romano, con le parole, il cuore, la testa di altri. “Inchiodata” a un telaio, è simbolo del ruolo domestico delle donne dell'antica Grecia, dove tessono tutte, mortali ed immortali: da Atena ad Aracne, dalle Moire a Circe, da Andromaca ad Elena, da Medea ad Arianna. Tutte, come Penelope, incarnazione di uno stereotipo femminile creato dallo sguardo maschile. Penelope non è padrona della sua storia, ma, nel “retelling” di Maestosi, costruito sull'ordito della sua recente ricerca artistica, sospesa tra pittura e letteratura, filosofia e scienza, autobiografia e cronaca, tenta di impadronirsi del proprio destino, strappando e ricucendo i fili di una tela che si fa specchio della sua psiche. L’artista ha intrapreso questo percorso quattro anni fa sulla costante del suo trentennale lavoro sul tempo. La figura di Penelope, emblema dell'attesa, affiora durante il lockdown. Lo spunto è una vecchia Odissea che gli capita tra le mani, la rilegge con occhi diversi, coglie passaggi che gli erano sfuggiti come i pochi versi dedicati alle dodici ancelle, tacciate di infedeltà ed impiccate, nella furia vendicativa di Ulisse, al soffitto. La guerra di Troia non è mai finita, entra, con tutto il suo orrore, nella reggia di Penelope, così come irrompe, nelle casee-progione a causa della pandemia, un'altra paura di morte, di grande impatto collettivo: il conflitto in Ucraina. Non è che una delle tante guerre che devastano il Pianeta e che ci colpiscono solo di striscio, fa notare Maestosi che le evoca in «Addio Kabul», quadro che richiama l'abbandono dell'Afghanistan, riassumendp un ventennio di conflitti che hanno destabilizzato gli schemi politici ed economici dell'Occidente a partire dal crollo delle Torri gemelle. Covid e guerra diventano due capitoli fondamentali - «La Notte» e «La Notte armata» - di «Le tele di Penelope», la mostra che poco alla volte prende corpo, in un cortocircuito tra età omerica e il nostro tempo lacerato, complici anche la scoperta o riscoperta di autori che hanno trattato temi legati al mito, alla memoria, alla solitudine e all'empatia: Margaret Atwood, Madeline Miller, Pessoa, Mario Perniola, Georgi Gospodinov. Il racconto pittorico si modella a mo' di sinfonia orchestrata in più movimenti da Penelope-Maestosi, uno in due alla ricerca di autonomia e di una via di fuga ai terreni incerti dell'esistenza. Tesi entrambi verso l'alba in un sogno sognato a quattro occhi, o meglio a quattro mani, perché a guidare colori e pennelli è il filo che la regina di Itaca, in una metamorfosi con la principessa di Creta, Arianna, utilizza per condurci fuori dal labirinto, dove abitano i nostri mostri, verso la strada della luce. Che è quella dell'amore, della condivisione, dell'empatia e che per Maestosi si traduce in «Io Siamo», ultimo atto dell'esposizione della primavera 2023 alla Fondazione Ebris di Salerno, ospitata in un monastero medievale affacciato sul golfo delle sirene. Una rivelazione. Come Penelope precipita nel «profondo del mare» (titolo del segmento più coinvolgente della mostra) per poi rinascere nel flusso inebriante delle acque, così noi precipitiamo e riesistiamo in quel qualcosa d'invisibile, avverte Maestosi, che è in tutto quello che ci circonda, un fiore, un bambino che sta per nascere, il volo di una falena, la pulsione viva di un animale, una pietra, una macchina. Siamo in relazione con l'universo – in fondo è il precetto della fisica quantistica – l'uomo si arrovella senza capire che la verità è inscritta nella fine dell'esistenza; l'unico fantasma che vogliamo fuggire è la morte, che è uguale per tutti.
Quel «Io Siamo» sembrava fosse il congedo di Maestosi da Penelope. Invece, eccolo al Museo Andersen di Roma, luogo per lui di incanto e sensazioni, pronto a rimescolare e gettare di nuovo giù le carte per dare vita a una nuova narrazione negli ambienti che racchiudono la grande utopia del World Center of Communication, la città ideale che, secondo l’artista norvegese, doveva essere, nelle aspirazioni del movimento internazionale pacifista della borghesia intellettuale del primo Novecento, libero laboratorio di idee. Qui il pittore riannoda i fili di Penelope in uno spettacolo dialettico, «a schema libero», tra le opere dello scultore e le sue. La battaglia di Penelope continua. Ha seppellito il fulmine di un dio colto in fallo (la mostra romana parte dall'ultima dipinto di Maestosi ispirato ai bronzi di San Casciano) per ristabilire il suo ordine, ma non è riuscita a cancellarne le tracce, l'incubo è ancora lì ad ossessionarla. Cosa sono quei corpi giganteschi scolpiti nel gesso o nel bronzo, che sembrano voler scalare il cielo? Fantasmi degli eroi caduti a Troia, titani che sfidano gli dei? Poi focalizza: quegli uomini e donne senza pudore, che proclamano la pace, dichiarano invece guerra al mondo; probabilmente la pace nasce dalla lotta, considera, ma non è la sua guerra. La sua guerra è con se stessa, i suoi pensieri della stessa sostanza dell'aria. Sono e non declamano. Penelope attraversa il passato e il futuro come una montagna da scalare, il buio in cui si è persa e in cui, grazie alle sue tele - e Maestosi con lei - ha cominciato a ritrovarsi. Il viaggio si conclude in due movimenti. Il primo è dominato dall'Arianna- Penelope, che sfuma in un filo che diventa ombra, fino a svanire. Nel secondo, la figura centrale è un piccolo quadro, La Strategia del Fossile, a ridare realtà e ritessere i fili alla verità della morte che marca il nostro tempo. Penelope è la condizione umana appesa a un filo. Penelope è la pittura, la ricerca dell'invisibile, lo strumento attraverso il quale Maestosi prova a demolire le nostre prigioni, il gesto di fantasia per immaginare un futur possibile disfacendo e cercando forme, ponendo domande, suscitando emozioni e sogni.
Erminia Pellecchia


Il ruolo dell’inconsapevolezza
Danilo Maestosi è dotato di una complessa forma di soggettività.
Da un lato la sua consapevolezza si serve di un permanente dubbio al quale l’inconsapevolezza affida la responsabilità di demolire ogni ipotesi che in quanto ipotesi si pone in contrasto con le dinamiche mentali di un osservatore rispettoso della percezione collettiva di quel puro esistere. A sua volta l’inconsapevolezza abbandona la postura mentale dell’osservatore e delle sue certezze e si assume la responsabilità di osare oltre i confini percettivi della convenzione culturale del tempo, cercando di recuperare la visione “ipotetica” che la coscienza razionale esclude.
L’inconsapevolezza, tollerata dall’autoritarismo della consapevolezza, non può che porsi come segreta e libera lateralità.
In Danilo Maestosi questa lateralità si fa avanguardia intuitiva, nuova, proprio per la sua vitale necessità di identificare l’inedito significante di se stessa.
Maestosi è un pittore dell’”Aura” e non ha mai escluso nel proprio operare il determinante sostegno dell’intelligenza della mano, senza la quale non può esistere la stessa “aura”. “Aura” è un termine coniato da Benjamin, una sorta di “quid sacrale” che è poi una sorta di voto divino al quale inconsapevolmente Maestosi affida la sua vera lateralità.
Oggi essere pittore dell’“aura” credo significhi appartenere ad una tipologia di artisti che fin dagli anni Sessanta, mentre nella Biennale di Venezia del 1964 esplodeva la Pop Art, ha scelto o meglio ha sentito per ragioni genetiche di dover superare la dimensione lineare del pensiero che era già stata sperimentata nell’esperienza futurista. Allora si tratto di credere in un progresso eterno e lineare che non prevedeva la morte e, quindi, l’arresto del moto. Invece per gli artisti dell’“aura” il superamento della “retta” e l’incontro con la “sfera” proponeva una vita generata dalla consapevolezza della inevitabilità della morte, un reincontro con ciò che già era in noi prima che di esso avessimo coscienza e senza che sapessimo che era un indizio del nostro destino.
Si tratto forse di un impulso alla vita generato dall’ usura della vita stessa; usura dovuta anche al dissolversi delle speranze che le guerre del Novecento avevano alimentato nel dolore. Già negli anni Sessanta iniziò comunque un progressivo isolamento dei pittori dell’“aura”. I codici del Novecento non riuscivano più ad identificare quegli artisti dell’ “aura”, perché essi disinteressati al fenomeno dell’aumento della velocità degli scambi, ne venivano però influenzati e ciò determinava una mutazione nei loro processi mentali che iniziavano a porsi oltre i codici del Novecento. Invece gli artisti contemporanei, astratti o concettuali, consideravano gli artisti dell’“aura” vecchi e retorici. Essi nel tentativo di dare risposta al progressivo velocizzarsi degli scambi abbandonarono il territorio della loro interiorità. Iniziò da allora, forse, quel processo di graduale abbandono dell’“intelligenza della mano” che verrà gradualmente sostituita dalle tecnologie che stanno aprendo il percorso all’intelligenza artificiale. Quest’ultima non come strumento ma come soggetto.
Certo non era facile per la cultura di quel tempo, ancora condizionata dalle ideologie del passato, comprendere che in quegli artisti dell’“aura” non poteva esserci relazione con la velocità della superficie, ma che c’era relazione con la velocità della mente.
Maestosi, proprio perché vive una attenta razionalità dominata da misteriosi veti, consente inconsapevolmente nella pittura alla sua necessità creativa di ritagliarsi uno spazio-tempo laterali.
Si tratta della progressiva conquista di un inedito punto di vista di colui che deve riconoscere ciò che gli appartiene tra ciò che non conosce. Per cercare di identificare quella che credo essere la vera novità di Danilo Maestosi, non potevo non ampliare la mia riflessione estendendola alla sua complessa personalità contradditoria. È da essa che si genera la novità di questo autentico artista. Non è più il tempo nel quale l’artista commentava poeticamente ed esteticamente ciò che era al proprio esterno e tutti commentavano l’artista e il suo commento. Oggi un quadro o comunque un supporto dipinto da un pittore dell’“aura” diventa un essere che espone la propria fondamentalità che risponde al tempo e non ad un’interpretazione culturale del tempo. Insomma, Io sono la verità e non ciò che ritengo vero.
Oggi a causa dell’alto livello crescente della velocità degli scambi, l’osservatore collassa nell’osservato.
Il soggetto veniva definito dalla distanza dall’osservato e poiché quella distanza non c’è più, io non sono più soggetto pensante, ma cosa in sé; cioè oggetto pensante tra e nell’esistente. Penso che questo nuovo contesto sociale possa essere definito “società della superficie” perché vive le dinamiche del puro esistere. Quindi oggi un quadro diventa esso stesso un essere e non più la rappresentazione di un pensiero di quell’essere e così devo ripetere che la verità sono io e non ciò che ritengo vero.
Si va determinando uno spostamento percettivo verso la natura funzionale del puro esistere e dei suoi fondamentali in una estensione crescente sino al microcosmo. Ma mentre la scienza perviene velocemente a nuove importanti scoperte per la conoscenza umana tecnico- scientifica, il corpo intellettuale sembra non aver più capacità di stupore e non sente la necessità di riportare quelle scoperte nel sentimento umano, ma le vive soltanto come informazione di progresso e non come indizi di evoluzione. Qui sta forse la novità la novità di questo vero contemporaneo artista che è Maestosi il quale sente di dar forma ad una nota musicale e che incontra la geometria energetica di un pensiero o di una memoria e non il pensiero o la memoria stessi.
Così il pensiero inconsapevole di Maestosi sembra gradualmente vivere progressivi impulsi conoscitivi dell’animo nascosto nell’evidenza dell’esistere.
Credo che il destino artistico di Maestosi possa condurlo alla definizione intuitiva di una verità che si pone laterale nei confronti di una verità sociale e culturale che estende imprudentemente la presunzione di certezza ai livelli etici.
La verità etica oggi invece vive nel velocissimo succedersi di domande che nella loro corsa escludono la risposta per includerla nel corpo della stessa domanda che si fa risposta. Questa risposta non è certa, ma probabile in quanto non c’è più la possibilità di certezza etica, se non nella dimensione dell’ipotesi. D’altra parte, la Quantistica che è la nuova scienza, non è forse la scienza delle ipotesi?
La sensibilità di Maestosi si alimenta della propria postura laterale rispetto ai vincoli di una colta razionalità. Ciò le consente di vivere nell’umana nervatura emotiva l’incontro con corpi fenomenici dei quali la scienza identifica soltanto la fisica energetica funzione. In tal senso l’arte di Danilo Maestosi potrebbe anticipare un tentativo di risposta di un artista dell’“aura” al grave compito che attende coloro che credono nell’evoluzione umana e distinguono l’evoluzione dal progresso.
Riportare nell’ossatura emotiva dell’uomo le specifiche rivoluzionarie scoperte della nuova scienza è il nuovo audace compito che spetta alla creatività dei nuovi intellettuali ed alla forza delle loro ipotesi.
“L’ipotesi” che guida l’arte di Danilo Maestosi oggi è inevitabile. La nostra mente è oggi un treno velocissimo, e se da esso guardiamo, non vediamo più un albero, un cane e un passante, ma una sintesi di ciò che crediamo di aver visto.
Ennio Calabria


Le tele di Penelope
Penelope sta in piedi davanti alla finestra che si affaccia sul patio. Fuori il buio sta svaporando nelle nubi dell'alba. Un tragitto che si ripete ogni giorno.
Penelope pensa: "Anche la mia vita è così, un transito da cecità in cecità". Poi pensa ancora: "Non è vero, il sole, la luna, l'aria, le piante, sono più fortunate, non guardano e sono indifferenti dell'offrirsi allo sguardo, niente recite, ognuno fa e sa la sua parte, niente doveri, essere e basta". E ancora: "lo invece devo fare i conti con le mie gabbie. Rovistare nelle casse, cercando l'abito che indosserò, accarezzando quello che mi ha un tempo vestito". Penelope si volta. A sinistra, lo specchio. La sbeffeggia un volto arricciato di rughe: le sputa in faccia la solitudine della vecchiaia che avanza inseguendo la stanchezza delle notti in bianco.
A destra, il telaio. Sopra, appeso ai tiranti, il ricamo che ha quasi finito di disfare: i fili che pendono slabbrati, braccia che si agitano senza più corpi. Ma ancora urlano il bisogno della forma che hanno perso, delle parole che non hanno detto. Lei sola le ha sentite, lo stesso timbro della voce che le emerge dentro, ma una volta fuori non le appartiene più. E non è la voce di un Dio: agli dei ha smesso di far sacrifici, ha capito che difendono un ordine che non le appartiene, la legge che vuole inchiodarla al suo futuro già scritto di donna, un oggetto di scambio, un diamante o un gingillo. "Il valore misurato dalla dote con cui, come d'uso, mio padre mi ha messo all'asta. E ora potrebbe rifarlo se l'incertezza sulla sorte di mio marito Ulisse non scombinasse le carte. Dietro, lo stesso culto dei beni che ha scatenato la guerra di Troia, camuffato nelle sembianze fatali di Elena e del suo presunto rapimento. Dire senza che altri lo sentano. O senza sapere che cosa sentiranno. Perché lo fa? Perché sentire senza poter dire è molto peggio. Come rassegnarsi ad amare senza amore. All'inizio era un trucco da baro, per tenere a bada i pretendenti che l'assediavano in casa: "Quando finirò questa tela deciderò chi scegliere, chi prenderà il posto del mio marito scomparso". E invece di notte giù a grattare via tutto.
Poi, dopo quattro anni, Antinoo, il più sveglio, il più arrogante di quegli scrocconi, mi ha smascherata. Ma non l'ha detto agli altri. Poteva chiedermi di giacere con lui in cambio del suo silenzio. L'avrei forse fatto. E magari non mi sarebbe neppure dispiaciuto. Credo che lui abbia avuto paura di suscitare l'ira dei suoi compagni. E io paura della sua paura. La sua indecisione mi ha riconsegnato il fardello della mia libertà e della mia debolezza. Di fingere, tessere di giorno e scucire di notte quella tela infinita, comunque non c'era più bisogno. Ma lì ho capito che dovevo continuare. Stavo soffocando a forza di rinchiudere il mio destino nel passaggio da una prigione ad un'altra prigione. Una prima prigione già il sussulto d'orgoglio che provai quando mio padre ha accettato la proposta di Ulisse. Chiese me, un'adolescente con i brufoli sulle guance, per garantirsi il ruolo di arbitro neutrale e scongiurare una guerra fratricida, nella contesa tra i re dell'Achea che aspiravano alla bellezza impareggiabile di Elena, una mia lontana cugina. Più che me Ulisse celebrò il matrimonio con la sua astuzia, e la fama che gli avrebbe fruttato. Ed io lì a gongolare, nelle mie smancerie da adolescente.
Ma non me ne sono pentita. è stato e resta nel ricordo un uomo premuroso e gentile. Mi ha insegnato la curiosità, era il sogno che lo ha spinto a partire e lo tiene ancora lontano da Itaca. Ma mi ha inchiodato alla prudenza, alla dedizione e all'attesa. Vizi o virtù? Sono le bussole che mi guidano anche ora, le maschere che indosso in questa casa svuotata dal suo corpo e dal suo esempio e affollata di parassiti che ci banchettano, giocando con la mia sorte. Forse dentro, sotto queste apparenze, c'è anche la mia pelle e il mio sangue. Ma allora l'impazienza, la rabbia che ogni tanto mi assale quando anche mio figlio Telemaco mi guarda e mi vuole così? Quando ho cominciato ad accorgermi che la mia storia è raccontata - temo che lo sarà sempre - con le parole, il cuore, la testa di altri. Che ero, sono solo la comparsa, una figura marginale della storia di Ulisse. Una matassa di fili che dovevo cominciare a sbrogliare, per segare le sbarre. E magari impugnare un capo alla volta fino a individuare quello da recidere come fanno le Moire, amministrando il tempo finito degli umani. Ecco, ho iniziato ad impadronirmi della mia vita solo quando ho cominciato ad addentrarmi nel territorio senza risposte della morte. Evitando di incorrere nell'errore fatale di Orfeo, la debolezza di guardarsi indietro. E rubando, io umile ricamatrice, uno dei segreti dell'arte: cercare una verità possibile nel rito creativo del perdere e riassumere forma.
Lo stesso processo è avvenuto con le mia tela. Le mie tele, dovrei dir meglio. Ogni tela consacrata a un istante diverso. Quello in cui la visione del ricamo stacedendo il passo ad un'altra visione, l'insieme dei fili strappati si sfalda. E il passato accoglie presente e futuro. Scompare la distanza tra la partenza di Ulisse, il suo ritorno, la nuova ripartenza che scatterà invitabile, la mia storia che tornerà a scorrere, allontanandosi da me".
Questo sta pensando Penelope, in piedi davanti alla finestra. Cercando di fissare negli occhi gli attimi che registrano in successione il mutare di luci dell'alba che avanza, della notte che si ritira. Di immaginare il colore del filo con cui riprenderà a tessere la tela, del filo da strappare per correre verso altri sogni. Altri incubi.
La luce della candela illumina ora un'altra notte. Lei è ancora lì davanti al telaio. Ma nel letto alle sue spalle c'è il corpo addormentato di Ulisse. Sì l'eroe è tornato nelle vesti di un mendicante.
E Penelope l'ha riconosciuto ed accolto. Anche dentro di sé. L'ha ridestata l'angoscia di aver accolto in quell'abbraccio un estraneo. Il dubbio di averlo per la prima volta tradito, tradendo se stessa. "Insieme all'orrore di virile e insensata giustizia che si è trascinato appresso, e con cui mi ha travolta e sporcata. Il palazzo trasformato in un sepolcro di vendetta e di sangue. Lo spettacolo agghiacciante delle dodici ancelle impiccate al soffitto. Infedeli? Non certo a me, che nei loro sgarbi, nei loro pettegolezzi, nei loro istanti di disubbidienza, in quel loro vendere e procurarsi ricompense e piacere, avevo respirato lo stupore della vita com'è: prendere e non attendere. Ma non ho trovato il coraggio di dirlo". Fili che Penelope deve strappare via, sostituire con nuovi fili per toccare la sua debolezza. Una tela che non finirà mai. Come la guerra di Troia che rinasce e si ripete in ogni parte del mondo.
Danilo Maestosi


Graffiare il tempo
La dannazione di Penelope è il tempo. Fare e disfare la tela, almeno all'inizio, è l'arma che sceglie per difendersi. Le opere di Danilo Maestosi esposte alla Fondazione Ebris di Salerno partono da qui, dalla gabbia del tempo; dalla lenta presa di coscienza, da parte di Penelope, della ineluttabilità di questa gabbia. E dal fatto che esiste sempre la possibilità - mai fino in fondo colta da Penelope - di un gesto rivoluzionario, uno strappo, una rivolta finale, per dare un senso alla vita. Come farà Medea, in fondo; ma questo lo vedremo meglio poi. Penelope no, lei sceglie il tempo come suo vero padrone: è la sua ossessione.
Graffiare il tempo è - anche - il fine della pittura di Danilo Maestosi. Come lui, tutti gli artisti, in ogni epoca storica, hanno sempre dovuto combattere contro l'impossibilità di fissare il tempo sulla tela. In origine c'è stata la pittura plastica, che riteneva di poter vincere la sfida dipingendo il movimento dei corpi; e su questa strada i secoli successivi hanno rispettato la prescrizione dei maestri. Poi è stata la volta della luce: il prima e il dopo della luce, disposti nei quadri sotto forma di ombre tremolanti. L'abbaglio della candela di Caravaggio non è mai fermo: nella fissità, esso prevede un prima e un poi. Infine, quando Picasso e le avanguardie hanno rotto l'assedio della cornice (e la tela ha smesso di essere l'otturatore di una macchina fotografica umana), i nostri futuristi hanno immaginato di dipingere lo spostamento delle forme nel tempo (più che nello spazio come i pittori plastici delle origini). Danilo Maestosi parte da qui, da Boccioni. Ma è come se avesse fatto un percorso a ritroso: dalla velocità futurista all'indietro fino al Mito classico. Perché l'origine - anche quella del tempo - è lì. E che cosa c'è di più mitico, in chiave temporale, della tela di Penelope? Ma la tela dipinta da Danilo Maestosi non si ferma alla leggenda della regina di Itaca: va a ricercare il pensiero che sta dietro quel suo fare e disfare; che diventa, lentamente, una propensione di Penelope all'ineluttabilità del procedere - a volte frenetico - della vita. La vita è tempo che scorre. Il Mito, all'epoca dei greci, assumeva senso dalla sua capacità di fornire indicazioni concrete: era lo strumento che i filosofi e i tragedi hanno inventato per trasferire il Caso alla vita quotidiana. Il problema era passare dal Mito alla Razionalità. Perché, per non essere puro capriccio degli dei, il Fato deve assumere i contorni di una persona, un individuo in carne e ossa; non solo quelli materiali (le facce, gli occhi) bensì anche quelli interiori: i sentimenti dominanti, come ci ha insegnato Shakespeare. Ci ricordiamo il dubbio più di Amleto, la gelosia più di Otello, la bramosia di potere più di Riccardo III. Allo stesso modo, Danilo Maestosi porta in primo piano la dannazione del tempo di Penelope, più ancora che la moglie di Ulisse.
Nelle opere di Danilo Maestosi esposte a Salerno non bisogna andare a cercare i contorni materiali - le facce e gli occhi, che, pure, alle volte ci sono, come vedremo - ma l'alternarsi di illusioni e delusioni, rabbia e coraggio. La successione dei colori è funzionale a questo movimento emotivo: i bianchi e i rossi, il blu, il verde, il nero. È il "trucco" che Danilo Maestosi ha escogitato per uscire dalla gabbia del tempo: un orologio mosso dall'eterno dondolio delle emozioni legate ai colori. E, volendo cercare un Mito così strettamente annodato a questo "movimento", che cosa c'è di meglio di Penelope? Anche al di là della sua proverbiale tela. Che pure è centrale, in questi dipinti: guardate i lacerti di colore trascinati gli uni sugli altri: una trama che si fa e si disfa. Con i segni del fondo che affiorano nelle pieghe del dipinto. È come se Penelope graffiasse la sua tela, piuttosto che tesserla: queste rigature manifestano una stizza che sconfina spesso nella incomprensione; la tela di Penelope diventa la sua rabbia o il filtro attraverso il quale lei sceglie di vivere la vita sua e degli altri, come dietro a una grata da confessionale. Ossia quel luogo appartato dove si confessano i peccati e dove si aspetta l'assoluzione. Questa è la vita di Penelope: aspettare. Non è così - aspettare - la vita di chiunque? Lo ha spiegato bene Beckett: solo ponendosi nella condizione di farsi sorprendere - solo aspettando - può succedere che la vita ci si riveli per quel che è, una concatenazione di casi. Aspettando Ulisse, Penelope vive, incontra, piange, si rallegra: la sua tela ne è il respiro.
A che cosa serve l'ossessione di Penelope? È risolutiva questa sottomissione al dominio del tempo? Non sarebbe più utile, al contrario, un atto di rivolta violenta come quello di Medea? Oppure non sarebbe, invece, più saggio affidarsi totalmente al Caso, come Arianna, che aspetta dal Caso l'occasione giusta per la sua vendetta? Nelle tele di Danilo Maestosi c'è proprio questa sequenza di domande: la vita è seguire la propria volontà o affidarsi al proprio destino? È meglio essere se stessi o non esserlo? Penelope è una delle prime figure mitiche a porsi questo interrogativo. E, se cercate la risposta, la troverete nelle opere di Danilo Maestosi: la soluzione è essere pronti. Vigili e presenti, accompagnando il Caso con le proprie emozioni che si fanno gesto pittorico. Questo senso hanno le figurazioni "umane" che, di quanto in quanto, compaiono nei suoi dipinti salernitani: sono i contorni di Penelope che osserva, che si adatta al proprio Destino, prende le misure e vive dentro di esso, riversando nella sua tela le rabbie e il coraggio di cui s'è detto.
In questa scelta, solo in apparente contraddizione con la lunga, pura stagione astratta della pittura di Danilo Maestosi, c'è il segno di quel "movimento" di cui si sta parlando: il suo modo di uscire dall'ossessione del tempo. Perché il mondo cambia anche quando ci sembra che il via vai della tela di Penelope sia la certificazione finale di una immota negazione della speranza. No, le cose cambiano, i volti nascosti affiorano, la tessitura di una tela diventa graffio sul passato. L'importante è essere pronti; e Danilo Maestosi ora è pronto per il suo prossimo ciclo.
Nicola Fano


Le trame del tempo
Che ogni opera d'arte, al di là della sua forma e della sua, magari effimera, materia, sia portatrice di più tempi e di profondità molteplici, esercitando così un'azione corrosiva nei confronti di ogni rassicurante tassonomia, di ogni puntuale cronologia, non è un'ipotesi critica. È, piuttosto, una solida premessa. Un punto di partenza e una prospettiva d'indagine che si riconosce in alcuni tra i percorsi di riflessione che meglio hanno interpretato lo scenario aperto dalla fine della storia dell'arte o la libertà dell'arte, come recitava il titolo del libro, davvero irrinunciabile, che Hans Belting pubblicava nell'ormai lontano 1983.
La riflessione condotta da George Didi-Hubermann sull'anacronismo, nozione grazie alla quale lo studioso francese, guardando ad Aby Warburg e al suo Atlante, ha chiarito il carattere policronico di ogni immagine, fantasma che ritorna e muta e ci riguarda, è solo uno dei passaggi che hanno orientato il cambio di scena tra i due secoli, segnato dalla radicale messa in crisi del paradigma storicistico. Giuliana Bruno ha dal canto suo contribuito a definire i limiti e le ottusità di un discorso lineare - una filologia - dell'arte: attraverso le sue erudite ed emozionate stratigrafie culturali ha proposto un idiosincratico lavoro di scavo e di analisi della superficie dell'immagine che si è mosso sempre ai confini delle discipline, all'incrocio (un nodo, in realtà) delle tradizionali arti del tempo e dello spazio. Sono discorsi che hanno messo definitivamente in discussione la traducibilità del linguaggio artistico aprendo all'incertezza, ad una feconda ambiguità dei significati e, ancora una volta, dei tempi dell'immagine.
Emancipandosi dalle prescrizioni del modello linguistico, che ne aveva addomesticato i sensi e ridotto le forze, le immagini, quella che appartengono all'arte e alle sue tante storie come pure quelle che occupano la nostra quotidiana icono-sfera, affermano finalmente in maniera decisa il proprio potere, la capacità di modificare la nostra relazione con lo spazio, di sollecitare gesti e non soltanto pensieri, implicandoci, riguardandoci. Chiedendoci attenzione attraverso la forza irresistibile del loro sguardo. Le immagini, infatti, "ci guardano", ed il loro è uno sguardo di Medusa, uno sguardo che rende pietra ma che soprattutto ci costringe a trovare nuove strategie di visione, che ci impone di guardare oltre per riconoscere allo specchio un mondo rovesciato.
Quello di Medusa è un mito antico che secondo Horst Bre-dekamp non smette di agire ("La paura della potenza visiva dell'immagine, a volte considerata alla stregua di un riverbero delle occhiate di Medusa, è ancora tra noi") così come non ha perduto di intensità e di attualità la figura, egualmente legata al mito, ad un mondo arcaico eppure ancora presente, di Penelope, donna e simbolo attorno a cui Danilo Maestosi ha voluto intrecciare la sua ultima tessitura pittorica.
Una scrittura di colori e di ritmici segni che l'artista, con evidente intenzione poetica, svolge attraversando tempi e contesti differenti, muovendosi fra l'età omerica e il nostro lacerato presente senza però lasciare spazio, se non per eccezione, alla cronaca. Sono solo due le opere in mostra cui Maestosi ha voluto attribuire un titolo (Addio Kabul è uno di questi), preferendo lasciare libero da eccessivi riferimenti il suo racconto visivo. Scandito in quattro capitoli e caratterizzato dal ritmo pieno del quadrato, formato minimalista per eccellenza, una forma geometrica senza direzione ed emozione, il flusso della narrazione pittorica di Maestosi non cede alla tentazione, certamente seducente, della rappresentazione, si mantiene lontano da ogni figurazione senza per questo rinunciare alla costruzione di una sequenza riconoscibile e marcata. Più che per un leggero respiro lirico, il lavoro che Danilo Maestosi ha concepito seguendo la trama e l'ordito simbolico della tela infinita di Penelope si caratterizza, infatti, per un incedere epico, è la cronaca di una lotta o, meglio, di una guerra senza fine (la tela di Penelope è secondo l'artista "come la guerra di Troia, che rinasce e si ripete in ogni parte del mondo") cosicché il passato remoto e l'attualità più bruciante si incontrano e si scontrano in ciascun dipinto, campo di battaglia e recinto di tensioni a un tempo intime e pubbliche. Come il pittore stesso chiarisce nello scritto, un racconto in terza e in prima persona con cui ha voluto accompagnare questa mostra ambiziosa e sicuramente sofferta, è un progetto nato nei giorni sospesi e spietati della pandemia, quando il tempo aveva un senso e persino un verso differente, qui non si tratta tanto di cercare la compiutezza del singolo dipinto quanto di "immaginare il colore del filo con cui riprenderà a tessere la tela, del filo da strappare per correre verso altri sogni. Altri incubi".
Le tante opere che Danilo Maestosi ha disposto nei corridoi, nelle stanze e nei varchi dell'architettura imprevedibile, persino onirica, dell'antico edificio di via Salvatore De Renzi, oggi sede della fondazione Ebris, non suggeriscono un percorso univoco e definitivo, invitano piuttosto ad un lento viaggio. Un viaggio per terre e per acque, nella luce e nell'oscurità, che non è un itinerario di salvazione ma un'immersione silenziosa nella profondità del tempo, un'esplorazione di sé e del mondo che ci espone al Kαιρός. Una parola, Kαιρός, che, lo ha ricordato Anne Carson, poeta e grecista di rara sottigliezza, quando ha il suo accento sull'ultima sillaba significa "il luogo e il momento giusti perché qualcosa possa accadere, il momento critico, l'occasione perfetta". Quando però l'accento si sposta sulla prima sillaba, Kαιρός indica quel punto unico nello spazio e nel tempo in cui la tessitrice deve infilare il suo filo attraverso un varco che si apre momentaneamente nell'ordito del tessuto. Un'apertura impercettibile, uno spiraglio istantaneo, effimero, che solo può garantire che la tela possa procedere, che il filo non si spezzi e la trama (la storia) non si interrompa. Ben sapendo che solo quel breve istante ci libererà per un attimo dalla nostra cecità: "una ferita, ha scritto Anna Carson, risplende di luce propria".
Stefania Zuliani



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Danilo Maestosi
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